Cassazione civile, sez. III, 10 Maggio 2018, n. 11269 (Fatto illecito costituente reato e prova del danno patrimoniale).

Cassazione civile, sez. III, 10 Maggio 2018, n. 11269 (Fatto illecito costituente reato e prova del danno patrimoniale).

Anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato, Il danno non patrimoniale, costituendo anch’esso un danno-conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi in re ipsa. L’art. 2059 c.c. opera esclusivamente sul piano della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge, lasciando integri gli elementi della fattispecie costitutiva dell’illecito ex art. 2043 c.c.. Occorre distinguere l’ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale, che si ricava dall’individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela, dalla verifica giudiziale di tale pregiudizio, che deve compiersi attraverso gli ordinari criteri di accertamento dei fatti previsti dall’ordinamento giuridico.
- In totale riforma della decisione di prime cure la Corte d'appello di Roma, con sentenza in data 10.12.2014 n. 7591 accertava che la condotta realizzata dalla dott.sa in farmacia e naturopata B.C. - consistita 1) nel prescrivere a I.C. su carta intestata "Studio associato dott.ssa B. e dott. L." una dieta alimentare accompagnata dalla assunzione dei farmaci L. - quest'ultimo in libera vendita da banco -, 2) nel rilasciare un certificato, ad uso assicurativo, relativo alle specializzazioni possedute dallo "Studio medico associato"; 3) nel rilasciare fatture per prestazioni indicate come "sedute specialistiche" e "visite per intolleranza alimentari" - integrava la fattispecie astratta del reato di esercizio abusivo della professione medica ex art. 348 c.p. essendo stata svolta attività diagnostica e terapeutica preclusa all'esercente la professione di dietista o nutrizionista. Tanto era sufficiente ad integrare la responsabilità della B. per il danno morale ex art. 185 c.p. e ex art. 2059 c.c., inteso quale sofferenza soggettiva causata dal reato, e che veniva liquidato dal Giudice di appello in via equitativa nella misura di Euro 10.000,00 avuto riguardo al dolo persistente - non avendo la B. reso noto che non possedeva la qualità di medico - ed alla gravità del fatto desunta dalla minore età - al tempo dei fatti - della persona lesa.

La sentenza, non notificata, è stata impugnata per cassazione da B.C. con quattro motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c. Resiste con controricorso I.C..

 

Motivi della decisione

Il primo motivo (violazione artt. 348 e 185 c.p.; L. 14 gennaio 2013, n. 4, art. 1; art. 2059 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) è inammissibile.

La ricorrente attraverso la denuncia di un errore di diritto viene a censurare l'errato accertamento dei fatti alla stregua delle risultanze probatorie esaminate dal Giudice di appello richiedendo a questa Corte una inammissibile rivisitazione della valutazione di merito compiuta dalla Corte distrettuale.

Il Giudice di appello ha infatti ravvisato sulla scorta degli elementi istruttori una attività riconducibile a quella propria dell'esercizio della professione sanitaria-medica, consistente nella diagnosi di disturbi patologici correlati con l'alimentazione e nella prescrizione di farmaci - pur trattandosi di presidio medico -chirurgico "da banco" - e di dieta alimentare, venendo in conseguenza ad accertare la fattispecie astratta di reato ex art. 348 c.p. non disponendo la B. di titolo professionale idoneo, nè del prescritto tiolo abilitativo.

Ed infatti la ricorrente, con il motivo in esame, viene a contestare - soltanto apparentemente - la violazione della norma incriminatrice penale, in quanto non censura un asserito errore del Giudice nella rilevazione degli elementi normativi della fattispecie - che integra il vizio di "error in judicando" sindacabile in sede di legittimità -, sibbene viene a confutare l'accertamento degli elementi fattuali della fattispecie concreta sostenendo che: a) il L. e l'O. non erano "farmaci in libera vendita", trattandosi invece di meri integratori alimentari, tanto è che la madre della minore era stata sottoposta a procedimento penale per avere falsificato la ricetta emessa dal titolare della farmacia onde far figurare l'O. come "farmaco omeopatico"; b) di non avere prescritto una dieta alimentare ma di aver solo indicato alimenti da assumere ed altri da evitare; c) che le fatture erano state rilasciate tutte all'esito del trattamento, quando la madre della minore era pienamente a conoscenza che la B. non era un medico, e le prestazioni descritte nelle fatture non potevano trarre in inganno su tale circostanza; d) che non sussisteva il dolo necessario ad integrare la fattispecie di reato, avendo omesso la Corte di appello di compiere tale accertamento.

Risulta quindi evidente che la critica fuoriesce dal tipo di vizio di legittimità denunciato, non recuperando il vaglio di ammissibilità nel tentativo di trasformare i predetti elementi fattuali in elementi integrativi della norma penale "in bianco": il richiamo della legge 14.1.2013 n. 4 (disposizioni in materia di professioni non organizzate) alla stregua della quale avrebbero dovuto essere individuate le prestazioni professionali "lecite" nella specie riconducibili alla attività di "naturopata", risulta inconferente solo che si osservi come detta legge all'art. 1, comma 2 consente il libero esercizio della professione "con esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi od elenchi ai sensi dell'art. 2229 c.c., delle professioni sanitarie e delle attività e dei mestieri artigianali, commerciali, e di pubblico esercizio disciplinati da specifiche normative".

Premesso che l'attività di diagnosi patologica e la prescrizione terapeutica rientrano tra quelle proprie dell'operatore sanitario iscritto all'albo, in possesso del titolo di laurea in medicina e del necessario titolo abilitativo all'esercizio della professione, osserva il Collegio che il Giudice di appello, nel considerare gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice in bianco di cui all'art. 348 c.p. non ha affermato che le predette attività non fossero attinenti all'esercizio della professione medica, o che fossero, al contrario, da riferire anche - alle competenze professionali proprie del nutrizionista o naturopata (in tal caso incorrendo in "errore di diritto" sulla rilevazione degli elementi costitutivi della fattispecie normativa penale), ma ha invece soltanto accertato in fatto che nel caso concreto tali competenze erano state in concreto esercitate da soggetto privo dei requisiti professionali richiesti dalla legge (accertamento che, se errato, viene a risolversi in un "errore di fatto", sindacabile in sede di legittimità soltanto nei limiti consentiti dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. in L. n. 134 del 2012).

Il secondo motivo (nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 116 e 228 c.p.c. e ss, nonchè dell'art. 2733 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) è inammissibile.

La ricorrente intende prospettare una propria soggettiva interpretazione del contenuto dell'esame istruttorio per interrogatorio formale che era stato deferito in primo grado alla sig.ra R. - madre dell'allora ancora minore I.C. -, venendo quindi a discutere non dell'ipotizzato errore di diritto in violazione dello statuto normativo del mezzo di prova, ma di un errore di fatto, come statuito in modo inequivoco nel precedente di questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 26965 del 20/12/2007 -richiamato, in modo lacunoso, anche dalla ricorrente - che ha enunciato il principio di diritto secondo cui "poichè l'art. 116 c.p.c. prescrive come regola di valutazione delle prove quella secondo cui il giudice deve valutarle secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti, la sua violazione e, quindi, la deduzione in sede di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 4 è concepibile solo: a) se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l'ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale); b) se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso (oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi). La circostanza che il giudice, invece, abbia male esercitato il prudente apprezzamento della prova è censurabile solo ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5".

Nella specie la contestazione della portata confessoria o meno del contenuto dichiarativo dell'interrogatorio reso dalla R., doveva pertanto essere veicolata attraverso il vizio di motivazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Tale principio di diritto, ribadito anche nelle successive decisioni di questa Corte (cfr. ex 

pluribus Corte cass. Sez. 6 - L, Ordinanza n. 27000 del 27/12/2016), deve essere coniugato, dopo la riforma dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con i limiti entro i quali è consentita la deduzione dell'errore di fatto, dovendo tradursi la inesatta valutazione della prova nella omessa considerazione di un fatto storico principale o secondario, ritualmente rappresentato in esito alla verifica istruttoria, e che se valutato dal Giudice di merito avrebbe condotto ad una diversa regolamentazione del rapporto controverso (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017) Con il terzo motivo la ricorrente deduce il vizio di omesso esame di un fatto decisivo previsto dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (erroneamente rubricato come art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Il motivo è infondato.

La ricorrente indica quali "fatti storici" che la Corte d'appello avrebbe omesso del tutto di considerare:

a) la natura di meri integratori alimentari del Lymiridial e dell'O., che risulterebbe anche dalla sentenza penale: tuttavia, contrariamente all'assunto difensivo, la Corte d'appello ha, invece, esaminato tale questione, pervenendo - anche in base alla lettura della stessa sentenza penale - alla medesima conclusione del Giudice di prime cure, e ritenendo che l'O. fosse da qualificare un "farmaco da banco", sicchè la censura viene sostanzialmente a richiedere una diversa valutazione della prova, inammissibile in sede di legittimità. La ricorrente, peraltro, non ha provveduto - come richiesto dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 - a trascrivere la sentenza penale nella parte in cui verrebbe a definire al natura dei prodotti in questione, impedendo in tal modo qualsiasi verifica da parte di questa Corte che non ha accesso diretto agli atti ed ai documenti del giudizio di merito;

b) la B. non aveva svolto attività diagnostica ma solo un Vegatest, circostanza oggetto di confessione della R. (la quale avrebbe ammesso quanto dedotto nel capitolo di interrogatorio formale "vero che (ndr la dott.sa B.)....avrebbe eseguito l'esame non diagnostico del Vegatest..": ricorso pag. 34): osserva il Collegio che la indicata circostanza è priva del requisito di decisività. La Corte d'appello, infatti, non ha affermato che la somministrazione del Vegatest debba qualificarsi attività diagnostica, ma ha ritenuto, invece, che dalla descrizione delle prestazioni professionali indicate nelle fatture emesse dalla B. ("sedute specialistiche per intolleranze alimentari" "visite per intolleranze alimentari") emergeva che la naturopata aveva svolto anche una attività di diagnosi patologica, riservata alla competenza professionale del medico (nella motivazione della sentenza, pag. 9, la Corte territoriale dà atto che "paziente era affetta da una malattia genetica"), essendo dunque irrilevante che la natura non diagnostica del Vegatest;

c) la mancata prescrizione di una dieta terapeutica: tuttavia la ricorrente non fornisce alcuna indicazione del fatto storico omesso, dal quale risulterebbe con certezza la tipologia del trattamento sommi strato alla I.. La ricorrente, infatti, si limita a richiamare la diversa valutazione compiuta dal Giudice di prime cure, risolvendosi la censura in una mera contrapposizione di valutazioni di merito compiute dai Giudici dei diversi gradi di giudizio. Non è decisiva - in quanto del tutto generica - neppure la prova testimoniale resa dalla dott.ssa C. - che, in qualità di medico, aveva collaborato con lo studio associato - la quale ha riferito di aver svolto attività medica anche in ausilio ai pazienti della B., senza tuttavia specificare se abbia o meno preso in cura anche la I..

Con il quarto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059, 2056, 1223, 1226, 2697, 2727 e 2729 c.c. in combinato disposto con l'art. 115 c.p.c. e l'art. 185 c.p., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il motivo è fondato.

La questione prospettata dal motivo di ricorso attiene alla individuazione del danno non patrimoniale derivante da reato, come danno-evento o danno "in re ipsa" (in quanto coincidente con la condotta violativa del diritto, e cioè con il perfezionamento della fattispecie illecita) ovvero come "danno-conseguenza" (ossia come ulteriore "prodotto", effetto ontologicamente distinto, e cronologicamente successivo, rispetto alla violazione del diritto, id est al perfezionamento della fattispecie illecita).

Orbene la giurisprudenza di questa Corte ha da tempo abbandonato la originaria e risalente tesi, prospettata in relazione al danno biologico per la lesione della integrità psicofisica dalla sentenza della Corte costituzionale 14 luglio 1986 n. 184, ed estesa alla lesione di diritti fondamentali - insuscettibili di valutazione economica -, secondo cui la condotta lesiva era "ex se" dimostrativa del pregiudizio - di natura non patrimoniale - risarcibile, essendo approdata in seguito ad un complesso e travagliato percorso ermeneutico, attraverso la sussunzione della categoria dell'illecito produttivo del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. nell'ambito dello schema strutturale della norma generale sull'illecito extracontrattuale ex art. 2043 c.c., alla indifferenziata applicazione del criterio causale, fondato sulla relazione "condotta materiale evento lesivo - conseguenza dannosa" (artt. 1223 e 2056 c.c.), a qualsiasi violazione di un interesse giuridicamente suscettibile di protezione secondo l'ordinamento giuridico, con la conseguenza che in modo del tutto identico si pongono le esigenze di prova della esistenza e dell'ammontare del danno "patrimoniale" e "non patrimoniale", non rilevando in contrario, ai fini dell'accertamento delle conseguenze pregiudizievoli, la natura non economica (insuscettibile di espressione equivalente attraverso la misura del valore di scambio) dell'interesse tutelato dall'ordinamento che è stato leso, operando su un diverso piano ontologico la prova della sussistenza dell'"an" (realizzazione dell'evento lesivo dell'interesse tutelato) e della determinazione del "quantum" (entità del danno risarcibile).

In particolare questa Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008 ha definitivamente chiarito che l'art. 2059 c.c. opera esclusivamente sul piano della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale "ai soli casi previsti dalla legge" (1- illecito astrattamente configurabile come reato: art. 185 c.p., comma 2; 2-illecito, non qualificabile come reato, ma che per espressa previsione di legge impone il ristoro di un danno non patrimoniale; 3 - illecito non bagatellare - che abbia leso diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale), lasciando integri gli elementi della fattispecie costitutiva dell'illecito ex art. 2043 c.c. (la condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso).

Il principio ha trovato seguito nella giurisprudenza di legittimità, per cui può conclusivamente affermarsi che il "danno non patrimoniale", costituendo anch'esso pur sempre un danno-conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi "in re ipsa" (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 20987 del 08/10/2007 - con riferimento alla prova del danno esistenziale -; id. Sez. 3, Sentenza n. 10527 del 13/05/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 13614 del 21/06/2011; id. Sez. L, Sentenza n. 7471 del 14/05/2012 - relativa alla prova del danno non patrimoniale derivato dalla lesione della dignità personale -; id. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 21865 del 24/09/2013 - concernente la prova del danno non patrimoniale derivato dalla elevazione di protesto illegittimo; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 20643 del 13/10/2016 - con riferimento alla prova del danno non patrimoniale per lesione della reputazione sociale di un ente collettivo -).

Nella specie il Giudice di appello non ha interpretato correttamente i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte con le note sentenze nn. 26792-26795/2008, atteso che come emerge dalla lettura della sentenza impugnata, ha voluto desumere dalla disciplina dei limiti alla risarcibilità del danno non patrimoniale (individuati nella espressione previsione di una norma di legge: norma generale dell'art. 2059 c.c.; singole norme speciali che riconoscono il ristoro di tale danno; lesione di interessi della persona direttamente tutelati dalle norme della Carta costituzionale) anche un diverso statuto, rispetto a quello delineato dagli artt. 1223, 1226, 2043 e 2056 c.c., dei criteri di accertamento del danno non patrimoniale, affermando che "quando il fatto illecito integra gli estremi di un reato..... spetta sempre alla vittima il risarcimento del danno non patrimoniale.... ivi compreso il danno morale... " (sentenza appello, pag. 9).

Occorre, infatti, distinguere, l'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale che si ricava dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela (nella specie l'art. 185 c.p.: "Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui"), che si risolve nella estensione della responsabilità civile dell'autore dell'illecito al ristoro di un'ulteriore tipologia di pregiudizio di natura non economica, dalla verifica giudiziale di tale pregiudizio, che deve compiersi attraverso gli ordinari criteri di accertamento dei fatti previsti dall'ordinamento giuridico, che richiedono la dimostrazione (che implica evidentemente la allegazione) della esistenza del danno, della sua derivazione causale dall'evento lesivo della situazione giuridica tutelata, nonchè della sua entità (intensità o dimensione del pregiudizio).

Le Sezioni Unite hanno chiaramente evidenziato come "Nell'ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.u. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.u. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica. La limitazione alla tradizionale figura del cd. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poichè nè l'art. 2059 c.c. nè l'art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poichè la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza, al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005). Va conseguentemente affermato che, nell'ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento. In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all'ordinamento (secondo il criterio dell'ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poichè la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell'interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale" (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 26975 del 11/11/2008, in motivazione, paragr. 2.10).

Che il danno morale soggettivo per essere risarcito dovesse essere sempre accertato in concreto, era peraltro nozione già da tempo ricevuta da questa Corte che aveva riconosciuto, anche ai parenti della vittima offesa dal reato di lesioni personali, il ristoro di detto danno, ma sempre subordinandolo al concreto accertamento dell'an e della sua derivazione causale ex art. 1223 c.c. dall'illecito (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 9556 del 01/07/2002), specificando ulteriormente che, costituendo il danno morale un paterna d'animo e quindi una sofferenza interna del soggetto, esso, da una parte, non è accertabile con metodi scientifici e, dall'altra, come per tutti i moti d'animo, solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provato in modo diretto, dovendo il più delle volte essere accertato in base ad indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 11001 del 14/07/2003; id. Sez. 3, Sentenza n. 13754 del 14/06/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 8546 del 03/04/2008).

Tale principio di diritto deve ritenersi consolidato, essendosi ad esso uniformate anche le successive decisioni delle sezioni semplici di questa Corte dovendo in particolare ribadirsi che anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato la sussistenza del danno non patrimoniale non può mai essere ritenuta "in re ipsa", ma va sempre debitamente allegata e provata da chi lo invoca, anche attraverso presunzioni semplici (cfr., in termini: Corte cass. Sez. 3, Ordinanza n. 8421 del 12/04/2011), risultando pertanto unificato il criterio di accertamento del danno non patrimoniale in relazione alle diverse ipotesi di previsione legale di risarcibilità dello stesso (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 10527 del 13/05/2011, secondo cui il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi "in re ipsa", ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici; id. Sez. 3, Sentenza n. 13614 del 21/06/2011; id. Sez. L, Sentenza n. 7471 del 14/05/2012; id. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 21865 del 24/09/2013; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 25420 del 26/10/2017).

Orbene nella specie difetta qualsiasi indicazione nella sentenza impugnata in ordine all'elemento indiziario utilizzato ai fini della prova presuntiva della sofferenza derivata alla I. dall'avere ricevuto indicazioni circa la dieta e dall'avere assunto il farmaco omeopatico da soggetto privo del titolo abilitativo all'esercizio della professione medica.

Gli elementi presuntivi individuati dalla giurisprudenza di legittimità cui fa riferimento la resistente nel controricorso (pag. 47-48), si riferiscono infatti sempre ad una lesione, sia pure marginale, della salute (lesione fisica anche di modesta entità, protrarsi della malattia, assoggettamento a cure riabilitative, stato di malessere ed abbattimento morale) e quando anche in assenza di lesione della salute, trovano fondamento pur sempre in una modifica dello stato di benessere interiore od anche nella modifica delle dinamiche relazionali, oggettivamente apprezzabili in quanto esplicantesi in manifestazioni di sofferenza che debbono trovare una plausibile corrispondenza nel torto subito (inconferente appare il richiamo della resistente al precedente di questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 11851 del 09/06/2015, che ha posto in evidenza l'autonoma consistenza del "danno morale soggettivo" come specifica componente dell'unitario danno non patrimoniale, ribadendone peraltro la risarcibilità soltanto se allegato e provato; del pari irrilevanti i richiami alla sentenza della Corte costituzionale 16.10.2014 n. 235, nonchè agli artt. 138 e 139 Cod. Ass. Priv. intesi ad evidenziare il carattere di componente autonoma del danno non patrimoniale della sofferenza interiore cagionata dall'illecito, questione del tutto estranea alla censura svolta dalla parte ricorrente, interamente incentrata sulla necessità dell'assolvimento dell'onere probatorio anche del danno morale soggettivo).

Nè può assumere rilievo la circostanza che la ricorrente - la quale all'inizio aveva perso qualche chilo - abbia poi smesso il trattamento accusando della stanchezza, trattandosi di elemento affatto considerato dal Giudice di appello, e che comunque non esprime una sofferenza interiore eziologicamente collegata alla fattispecie di reato ex art. 348 c.p..

In conclusione il ricorso deve essere accolto, quanto al quarto motivo (inammissibili il primo ed il secondo motivo; infondato il terzo), la sentenza impugnata deve essere cassata e la Corte, non occorrendo procedere ad ulteriori atti di istruzione, può decidere la causa nel merito, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda di condanna al risarcimento del danno morale soggettivo ex art. 185 c.p. proposta da I.C., dovendo dichiararsi interamente compensate le spese dell'intero giudizio, avuto riguardo sia alle alterne decisione dei giudici di merito, sia in considerazione della prevalente inammissibilità ed infondatezza delle censure prospettate dalla B. con il ricorso.

 

P.Q.M.

Accoglie il quarto motivo di ricorso; dichiara inammissibile il primo, secondo e terzo motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; decidendo la causa nel merito rigetta la domanda di condanna al risarcimento del danno morale soggettivo ex art. 185 c.p. proposta da I.C.. Compensa integralmente le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2018.