Diritto al risarcimento del danno per il padre di Eluana Englaro (Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 6 aprile – 21 giugno 2017, n. 3058).

Diritto al risarcimento del danno per il padre di Eluana Englaro (Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 6 aprile – 21 giugno 2017, n. 3058).

Il presente giudizio di appello costituisce l’ultimo segmento di un’articolata vicenda sostanziale e processuale, culminata nelle due pronunce del TAR per la Lombardia, n. 214 del 26 gennaio 2009 e di questa Terza Sezione n. 4460 del 2014.
L’attuale processo non rimette in discussione gli esiti delle precedenti decisioni, ormai passate in giudicato, ma ha un oggetto ben definito e circoscritto, per quanto complesso, concernente l’eventuale responsabilità risarcitoria della Regione Lombardia, in conseguenza dei danni asseritamente derivanti dal provvedimento illegittimo annullato dalla citata sentenza n. 214/2009, confermata in appello.
È pertanto utile riassumere i punti salienti della vicenda all’origine della controversia, focalizzando l’attenzione sugli elementi direttamente rilevanti ai fini della presente decisione.
L’attuale appellato, nella sua qualità di tutore della figlia - omissis -, ha impugnato avanti al T.A.R. Lombardia la nota della Regione Lombardia prot. n. M1.2008.0032878 del 3.9.2008, con la quale il Direttore Generale della Direzione Generale Sanità aveva respinto la richiesta, formulata dal predetto, con atto di significazione e diffida del 19.8.2008, che la Regione mettesse a disposizione una struttura per il distacco del sondino naso-gastrico che alimentava e idratava artificialmente la predetta -omissis-, in stato di coma vegetativo permanente e in cura presso una struttura sanitaria pubblica regionale, in seguito all’autorizzazione rilasciata dalla Corte di Appello di Milano, con decreto del 9.7.2008, nel giudizio di rinvio disposto dalla Corte di Cassazione, sez. I, 16.10.2007, n. 21748, e in sede di reclamo contro il provvedimento del giudice tutelare del Tribunale di Lecco.
2. - Nell’impugnato provvedimento la Regione Lombardia, pur manifestando sentimenti di solidarietà e vicinanza al tutore per quanto stava accadendo alla sua famiglia, aveva respinto la richiesta del tutore, esponendo, fra l’altro, la seguente motivazione: “in quanto le strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico diagnostico – assistenziale dei pazienti” e in tali strutture, hospice compresi, deve essere garantita l’assistenza di base che si sostanzia nella nutrizione, idratazione e accudimento delle persone e, in particolare, negli hospice possono essere accolti solo malati in fase terminale”.
3. - La nota aveva aggiunto che il personale sanitario il quale avesse proceduto, in una delle strutture del Servizio Sanitario, alla sospensione dell’idratazione e alimentazione artificiale sarebbe venuto meno ai propri obblighi professionali e di servizio, anche in considerazione del fatto che – a dire dell’amministrazione regionale - il provvedimento giurisdizionale, di cui si chiedeva l’esecuzione, non conteneva un obbligo formale di adempiere a carico di soggetti o enti individuati.
4. - Avverso tale determinazione aveva proposto ricorso avanti al T.A.R. Lombardia il predetto tutore, lamentando che il provvedimento impugnato sostanziasse un autentico “atto di ribellione” della Regione Lombardia al diritto, come sancito da un pronunciamento giurisdizionale, quale quello della Corte di Appello di Milano, sin dal 9.7.2008 esecutivo e ormai divenuto anche inoppugnabile, per essere stata respinta ogni impugnativa contro il medesimo, proposta tanto avanti alla Corte costituzionale quanto dinanzi alla Corte di Cassazione.
5. - La Regione Lombardia, quale ente istituzionalmente e costituzionalmente competente per i servizi sanitari, nonché per il coordinamento e la programmazione degli stessi, aveva la responsabilità di assicurare le cure e, dunque, anche l’eventuale interruzione delle stesse, in conformità dei pronunciamenti giudiziari, e ciò per la generalità degli assistiti che, come -omissis-, erano in carico al Servizio Sanitario Regionale.
6.- Aveva aggiunto il ricorrente che sarebbe stato comunque abnorme e manifestamente lesivo della libertà dell’esercizio della professione intellettuale, anche agli effetti dell’art. 33, comma 1, Cost., oltre che del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., che un organo amministrativo della Regione potesse stabilire quali fossero gli obblighi professionali del medico in riferimento a cure e trattamenti da praticarsi ad un singolo assistito, poiché ciascuno, adottando tale ordine d’idee, avrebbe potuto vedersi elargiti o negati dal “proprio” medico trattamenti sanitari o cure ad arbitrio dell’Amministrazione.
7.- Il rifiuto assoluto, espresso dalla Regione Lombardia e delle strutture sanitarie da essa programmate e coordinate nell’ambito del servizio pubblico, a collaborare all’esecuzione di un provvedimento giurisdizionale esecutivo, doveva ritenersi, quindi, gravemente illegittimo, anche dal punto di vista dell’art. 388, comma secondo, c.p., o di altre norme penali che sanzionano l’elusione o la violazione delle decisioni giudiziarie.
8.- Il ricorrente aveva chiesto, pertanto, al T.A.R. per la Lombardia di annullare l’atto impugnato, condannando l’Amministrazione al risarcimento del danno.
9.- Con successiva e separata istanza cautelare, depositata il 30.12.2008, il ricorrente aveva domandato idonea tutela d’urgenza, volta ad assicurare l’esecuzione del citato decreto della Corte d’Appello di Milano.
10.- Nella camera di consiglio del 22.1.2009, fissata per l’esame dell’istanza cautelare, il T.A.R. per la Lombardia, ritenuto di poter decidere la controversia in forma semplificata, ai sensi dell’art. 26 della l. 1034/1971, al tempo vigente, stante anche la rinuncia alla domanda risarcitoria proposta dal ricorrente, aveva trattenuto la causa in decisione.
11. - Il T.A.R. per la Lombardia, quindi, con sentenza n. 214 del 26.1.2009, ha accolto il ricorso, disponendo l’annullamento del provvedimento impugnato.
Nel merito, il T.A.R. ha stigmatizzato il provvedimento impugnato, per aver illegittimamente vulnerato il diritto costituzionale di rifiutare le cure, riconosciuto ad - omissis - dalla sentenza della Cass., sez. I, 16.10.2007, n. 21748, quale diritto di libertà assoluto, il cui dovere di rispetto si impone erga omnes, nei confronti di chiunque intrattenga con l’ammalato il rapporto di cura, non importa se operante all’interno di una struttura sanitaria pubblica o privata.
12.- Secondo il primo giudice il soggetto assistito che rifiuta le cure e, quindi, anche l’alimentazione e l’idratazione artificiale, riconducibili alla nozione più ampia di trattamento terapeutico e di assistenza sanitaria, ha diritto a che siano apprestate tutte le misure, suggerite dagli standards scientifici riconosciuti a livello internazionale, atte a garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona, durante tutto il periodo successivo alla sospensione del trattamento di sostegno vitale, rientrando ciò, a pieno titolo, nelle funzioni amministrative di assistenza sanitaria.
13. - L’Amministrazione sanitaria regionale, conformandosi alla sentenza, avrebbe dovuto, in ossequio ai principi di legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza, indicare la struttura sanitaria dotata dei requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi, tali da renderla “confacente” agli interventi e alle prestazioni strumentali all’esercizio della libertà costituzionale di rifiutare le cure, al fine di evitare all’ammalata o al tutore o curatore di lei, nel suo interesse, di indagare quale struttura sanitaria fosse meglio equipaggiata al riguardo.
14.- - omissis -, dopo la pubblicazione della sentenza del TAR, è deceduta il 9.2.2009 a Udine, presso la struttura sanitaria privata individuata autonomamente dal rappresentante legale, quale soggetto professionalmente idoneo a consentire l’adozione delle misure assistenziali individuate dalle predette pronunce del giudice civile.
15. - Tale sentenza del TAR è stata impugnata dalla Regione Lombardia dinanzi a questo Consiglio di Stato che, con la decisione n. 4460 del 2014, ha respinto l’appello, confermando, in toto, con un’ampia motivazione, la pronuncia di primo grado.
La sentenza n. 4460 del 2014 ha precisato (pagg. 8-9) che persisteva intatto l’interesse della Regione Lombardia all’impugnativa, nonostante fosse nel frattempo deceduta la persona assistita, non soltanto per la sussistenza di un interesse strumentale o morale (anche per orientare l’attività amministrativa dell’Ente in ipotetici casi analoghi che avrebbero potuto verificarsi in futuro), ma anche per la “perdurante utilità ai fini della domanda risarcitoria, rinunciata nel presente giudizio da parte del tutore di - omissis -, ma pur sempre riproponibile una volta che sia passata in giudicato la sentenza che abbia accertato l’illegittimità dell’atto, annullandolo”.
Come già incidentalmente rilevato, infatti, nel ricorso di primo grado era stata avanzata anche la domanda risarcitoria, alla quale – però – la parte ricorrente aveva rinunciato, nella camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare, per poter ottenere la decisione in forma semplificata. La sentenza della Sezione, non impugnata dalla parti interessate, è passata in giudicato.
16. - Con successivo ricorso al TAR per la Lombardia, notificato in data 12 gennaio 2015 e depositato il 22 gennaio successivo, il ricorrente, nella qualità di erede e di congiunto della Signora - omissis -, nonché, in proprio, quale tutore della stessa, ha chiesto la condanna della Regione Lombardia al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, derivanti dagli atti annullati dalla citata sentenza del T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 26 gennaio 2009, n. 214, come confermata dal Consiglio di Stato, Sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460, reiterando e precisando la domanda già proposta in quel giudizio e poi rinunciata.
A sostegno del ricorso ha dedotto la violazione dei principi costituzionali e del diritto sovranazionale in materia di garanzia dell’effettività del diritto alla tutela giurisdizionale, attesa la mancata volontaria attuazione da parte degli Uffici regionali di prescrizioni discendenti da pronunce definitive sia della Corte di Cassazione che della Corte d’Appello di Milano; nel ricorso sono stati analiticamente quantificati il danno patrimoniale e quello non patrimoniale asseritamente patiti.
17. - Si è costituita nel giudizio di primo grado la Regione Lombardia, che ha eccepito, preliminarmente, l’inammissibilità dell’azione risarcitoria già proposta e poi rinunciata; ha eccepito altresì – sempre in via preliminare - l’inammissibilità dell’azione risarcitoria per carenza di legittimazione attiva proposta dal ricorrente in qualità di tutore della figlia interdetta; ha quindi chiesto il rigetto dell’impugnativa per infondatezza.
18. - Con la sentenza di primo grado il TAR ha così statuito in punto di rito:
- ha respinto l’eccezione di inammissibilità del ricorso, a causa della preventiva rinunzia alla domanda risarcitoria;
- ha accolto l’eccezione di difetto di legittimazione attiva del ricorrente nella qualità di tutore della figlia.
Nel merito, ha riconosciuto la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, qualificando la condotta della Regione come dolosa, ed ha accolto il ricorso nei seguenti termini:
- quanto al danno patrimoniale ha riconosciuto la somma complessiva di € 12.965,78, così ripartita: € 647,10 legati al costo del trasporto della persona assistita; € 470,00 quale retta per la degenza; € 11.848,68 per costi legati al piantonamento fisso, oltre agli interessi legali dal momento dell’esborso e fino alla data di pubblicazione della sentenza;
- quanto al danno non patrimoniale, ha riconosciuto a titolo ereditario la somma di € 60.000,00 complessivamente spettante alla totalità degli eredi, ridotta ad un terzo – e quindi a € 20.000,00 – a favore del Sig. - omissis -, tenuto della mancata prova circa la sua condizione di unico erede (nel dispositivo tale somma viene invece quantificata in € 30.000,00);
- ha respinto la richiesta del danno morale soggettivo iure proprio, in mancanza della prova della sussistenza di una fattispecie di reato;
- ha accolto la richiesta di risarcire il danno da lesione parentale, ed ha quantificato la somma in € 100.000,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla data di proposizione del ricorso deciso con la propria sentenza n. 214 del 2009 fino al saldo.
19. - Con il ricorso in appello la Regione appellante ha censurato la sentenza, in relazione a molteplici profili di rito e di merito, chiedendone l’integrale riforma.
20. - L’appellato si è costituito in giudizio, spiegando anche appello incidentale avverso i capi di sentenza che lo hanno visto soccombente in primo grado.
In prossimità dell’udienza di discussione le parti hanno depositato scritti difensivi.
21. - All’udienza pubblica del 6 aprile 2017 l’appello è stato trattenuto in decisione.
22. - Deve essere esaminata preliminarmente la prima doglianza dell’atto di appello, con la quale la Regione Lombardia ha dedotto l’erroneità, l’illogicità e la contraddittorietà, oltre che l’insufficienza della motivazione, della sentenza, nella parte in cui ha respinto l’eccezione di inammissibilità o improcedibilità del ricorso formulata in primo grado; ha dedotto, altresì, la violazione delle norme e della giurisprudenza in materia di rinuncia all’azione e del principio di certezza del diritto, oltre che la violazione dell’art. 30 c.p.a.
Secondo la Regione, il capo di sentenza con il quale il primo giudice ha respinto l’eccezione sarebbe erroneo in quanto:
- la rinuncia alla domanda risarcitoria effettuata nel precedente giudizio impugnatorio costituirebbe rinunzia all’azione in senso sostanziale, incidendo sui diritti sottostanti, e dunque comporterebbe l’inammissibilità della riproposizione della domanda risarcitoria in un successivo giudizio;
- l’azione di condanna al risarcimento del danno, infatti, può essere proposta contestualmente all’azione di annullamento, o in via autonoma: nel caso di specie, il ricorrente avrebbe deciso di proporre le due domande congiuntamente ed avrebbe insistito, poi, per la sola domanda di annullamento, rinunciando, invece, a quella risarcitoria;
- l’art. 30 c.p.a. non consente la riproposizione della domanda ove già presentata, la norma infatti prevede le due modalità di proposizione in via alternativa e non cumulativa: essendo stata proposta 6 anni prima e poi rinunciata, la domanda risarcitoria non avrebbe potuto essere riproposta;
- erroneamente il primo giudice avrebbe richiamato la statuizione del giudice di appello non essendo coperta da giudicato, in quanto resa, incidentalmente, al solo fine della declaratoria della permanenza dell’interesse a ricorrere.
23. - La doglianza è infondata.
23.1 – Va premesso che i ripetuti richiami dell’appellante alla disciplina del codice del processo amministrativo non appaiono pertinenti, dal momento che l’originaria domanda risarcitoria e la sua rinuncia sono soggette, ratione temporis, alla disciplina previgente.
Sempre in linea preliminare, occorre considerare che non emerge dagli atti di causa del precedente giudizio alcuna volontà della parte interessata di rinunciare alla pretesa risarcitoria sostanziale: al contrario, l’atto di rinuncia, formulato direttamente nella camera di consiglio celebrata dinanzi al TAR, risulta puntualmente riferito alla sola azione proposta nell’ambito di quel giudizio.
Si legge, infatti, nel verbale della camera di consiglio relativa al ricorso n. 2443/2008, che “l’avv. Angiolini rinuncia, allo stato, all’istanza di risarcimento”.
Si tratta, all’evidenza, di una dichiarazione a contenuto meramente processuale (“istanza”), imputata, direttamente al difensore “l’avv.” e non alla parte sostanziale, circoscritta al giudizio in corso (“allo stato”).
Occorre rilevare, poi, – in via generale – che la rinuncia alla domanda non va confusa con la rinuncia agli atti del giudizio: nel caso di rinuncia agli atti del giudizio si può parlare di estinzione del processo, cui consegue una pronuncia meramente processuale, potendo essere la domanda riproposta nel caso in cui siano ancora aperti i termini per far valere in giudizio la pretesa sostanziale; la rinuncia all'azione, invece, comporta una pronuncia con cui si prende atto di una volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta in giudizio, con la conseguente inammissibilità di una riproposizione della domanda (cfr. Cons. Stato, VI, n. 1644/2003).
In quest’ultimo caso non vi può essere estinzione del processo, in quanto la decisione implica una pronuncia di merito, cui consegue l’estinzione del diritto di azione, in quanto il giudice prende atto della volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta nel processo.
23.2 - Nel caso di specie, ritiene il Collegio che il TAR abbia qualificato correttamente la rinuncia alla domanda risarcitoria, in origine proposta cumulativamente insieme alla azione di annullamento, come mera rinunzia agli atti del giudizio, e non come rinunzia all’azione. Questa circostanza rende superfluo l’approfondimento della questione concernente la valenza di giudicato – contestata dall’appellante - attribuita all’analoga statuizione da parte del giudice di secondo grado.
A tale riguardo, però, è sufficiente rilevare che la pronuncia della Sezione aveva accuratamente valorizzato la concreta possibilità di un successivo giudizio risarcitorio quale motivo centrale del permanente interesse della Regione a coltivare l’appello avverso la sentenza di annullamento.
E’ indubbio, comunque, che la decisione di rinunciare alla domanda risarcitoria in quella sede era motivata dalla sola necessità di addivenire ad una rapida definizione della controversia nel merito, al quale ostava la pronuncia sulla domanda risarcitoria, che, per la sua natura complessa, non si prestava ad una rapida definizione con la decisione in forma semplificata, ai sensi dell’art. 26 della L. 1034/71, all’epoca vigente. Appare quindi del tutto evidente, che la parte intendesse rinunciare non già alla pretesa sostanziale – e quindi all’azione – ma soltanto a quella parte di ricorso che si palesava oggettivamente incompatibile con la pronta definizione della controversia riguardante la legittimità del diniego impugnato. A tale rinuncia era poi, conseguita, correttamente, la pronuncia processuale di estinzione dell’azione, tale da non impedire la rituale riproposizione della stessa domanda entro il termine di prescrizione dell’azione.
23.3 - Né sussistono preclusioni nascenti dall’art. 30 c.p.a. e dal principio di alternatività, richiamato dalla difesa della Regione Lombardia, tenuto conto che il giudizio è iniziato nel 2009, e dunque è senz’altro anteriore all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, con la conseguenza che ad esso continua ad applicarsi il regime precedente, il quale consentiva certamente la riproposizione della domanda risarcitoria, entro il termine di prescrizione (cfr. Corte Costituzionale, 31/03/2015, n. 57; Cons. Stato A.P. 6/7/2015 n. 6).
La doglianza deve essere pertanto respinta.
24. - Con il secondo – articolato - motivo di appello principale la Regione Lombardia censura, nel merito, il capo di sentenza che ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti per la responsabilità della P.A. da provvedimento illegittimo.
Ha quindi dedotto i vizi di insufficienza della motivazione, la violazione dei principi di diritto e giurisprudenziali in materia di elementi costitutivi della responsabilità da attività illegittima della P.A., la violazione dell’art. 2043 c.c., l’erronea valutazione ed il travisamento dei fatti, la violazione dell’art. 112 c.p.c.
Il punto centrale del complesso motivo di impugnazione riguarda il profilo dell’indispensabile coefficiente soggettivo (dolo o colpa), che deve contrassegnare la responsabilità della PA derivante dall’adozione di atti illegittimi, insieme al requisito del nesso di causalità tra i danni subiti e il provvedimento illegittimo.
Al riguardo, la Regione contesta, in punto di fatto, l’accertamento compiuto dal TAR e svolge un’ampia critica alle premesse ricostruttive generali da cui muove la sentenza appellata.
24.1 - La Regione critica – innanzitutto - l’inquadramento della fattispecie operata dal TAR: il riferimento alla natura “speciale” di responsabilità da attività illegittima della P.A., in quanto procedimentalizzata, non inquadrabile né nell’ambito di quella contrattuale né in quella extracontrattuale (pag. 8 della decisione impugnata), sarebbe errata e comunque minoritaria all’interno della giurisprudenza.
Secondo la Regione, il modello richiamato al TAR sarebbe, infatti, quello – inesatto - della responsabilità da “contatto sociale qualificato” tra l’amministrazione e il privato, laddove, invece, lo schema concettuale di responsabilità che viene in massima parte applicato nella giurisprudenza amministrativa è quello della responsabilità extracontrattuale.
Secondo l’appellante, l’inesatta prospettiva seguita dal TAR avrebbe inciso sul corretto apprezzamento dell’elemento soggettivo dell’illecito, impedendo di pervenire alla conclusione secondo cui difetterebbe la prova della colpa e del dolo dell’amministrazione regionale.
24.2 - Sebbene possa convenirsi con la Regione Lombardia che, dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, la giurisprudenza maggioritaria si sia assestata nel senso di inquadrare la responsabilità della P.A. nell’ambito della cornice interpretativa delineata dalla previsione recata dall’art. 2043 c.c., è opportuno comunque precisare che il richiamo operato dal TAR alla responsabilità “speciale” della P.A. si correla essenzialmente alla decisione della Sesta Sezione 4 maggio 2005 n. 1047, seguita poi dalle successive decisioni 27 giugno 2013 n. 3521 e 29 maggio 2014 n. 2792, anch’esse richiamate. Queste pronunce, peraltro, non si pongono affatto nel solco della tesi della responsabilità da “contatto sociale qualificato”, che finiva per ricondurre la responsabilità della P.A. nell’ambito di quella contrattuale, con tutte le conseguenze che tale inquadramento avrebbe comportato: riconoscibilità del risarcimento a prescindere dalla spettanza del bene della vita, inversione dell’onere della prova rispetto alla responsabilità aquiliana, non ristorabilità dei danni imprevedibili, se non in caso di dolo, termine di prescrizione decennale.
24.3 – Piuttosto, la tesi della natura speciale della responsabilità della Pubblica amministrazione derivante da provvedimento illegittimo, cui mostra di aderire l’appellata decisione del TAR, è stata delineata dalla giurisprudenza amministrativa in considerazione della evidente difficoltà di utilizzare il modello generale e ordinario dell’illecito aquiliano disegnato dall’art. 2043 del cod. civ.
In linea generale, infatti, nella responsabilità extracontrattuale, difetta un preesistente rapporto giuridico tra il danneggiato e l’autore dell’illecito. Al contrario, invece, la responsabilità della PA derivante dalla lesione di un interesse legittimo si inserisce necessariamente all’interno del rapporto già instaurato tra P.A. e privato, il quale si svolge secondo le regole predefinite del procedimento amministrativo. Il provvedimento illegittimo, lesivo della sfera patrimoniale del destinatario, rappresenta, di regola, l’esito di un iter complesso, nel corso del quale le parti hanno esposto le rispettive ragioni e il privato ha delineato la consistenza dell’interesse pretensivo od oppositivo fatto valere nell’ambito del procedimento.
Tuttavia, nemmeno l’inquadramento nell’ambito della responsabilità contrattuale di cui agli artt. 1218 e ss. del codice civile è apparso convincente, tenendo conto della circostanza che il rapporto preesistente tra la PA e il privato non assume le connotazioni proprie di un vincolo obbligatorio, caratterizzato dal rapporto tra il dovere di prestazione e il diritto di credito.
In questo ambito, pertanto, si possono collocare le non infrequenti affermazioni del carattere speciale della responsabilità della PA, certamente rafforzate dalla esistenza di apposite regole che definiscono gli elementi centrali dell’azione.
La concreta fattispecie in esame, del resto, manifesta in modo palese le criticità dell’esatta qualificazione della responsabilità risarcitoria della PA, anche nell’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’istituto.
Infatti, nella presente controversia, il provvedimento illegittimo produttivo di danno è costituito da un diniego relativo allo svolgimento delle prestazioni mediche e terapeutiche, nell’ambito di un rapporto sanitario di cura e di assistenza già in atto (da ben diciassette anni) tra il soggetto richiedente e l’amministrazione sanitaria pubblica nel suo complesso.
In questo specifico caso, quindi, anche prescindendo dalla più generale questione della natura della responsabilità della PA derivante da provvedimento illegittimo, si potrebbe certamente approfondire la questione relativa alla esistenza di un rapporto obbligatorio, fondato su un contatto sociale qualificato, o, se si preferisce, su un tipico titolo giuridico espresso, costituito dalla “ammissione” del soggetto interessato ad un duraturo rapporto di utenza con la struttura sanitaria.
La determinazione regionale di non adottare le richieste misure necessarie per conformare il rapporto assistenziale ai precedenti obblighi scaturiti dalle decisioni del giudice civile, pertanto, si dovrebbe inserire in un rapporto giuridico già sussistente, giustificando se non l’adesione alla discussa categoria del “contatto sociale qualificato” (pure utilizzata recentemente dalla Corte di Cassazione, in una fattispecie diversa, ma con significativi richiami anche alle questioni riguardanti la responsabilità della PA da atto illegittimo), quanto meno la correttezza della qualificazione della responsabilità della PA come “speciale”.
Al tempo stesso, però, occorre evidenziare che la posizione giuridica incisa dal provvedimento illegittimo assume, come si specificherà infra, i contenuti di un diritto primario, costituzionalmente tutelato “erga omnes”: tale configurazione, in effetti, potrebbe rafforzare la tesi – oggettivamente maggioritaria – della natura aquiliana della responsabilità da atto illegittimo.
Ai fini della risoluzione del presente giudizio, tuttavia, non è necessario analizzare a fondo il tema e prendere posizione su una questione dogmatica di principio.
Infatti, la sentenza appellata, pur svolgendo un discorso introduttivo sulla natura speciale della responsabilità, non ne ha tratto conseguenze significative sul piano della dimostrazione del dolo e della colpa della PA. La pronuncia ha, in concreto, accertato positivamente la sussistenza dell’elemento soggettivo della responsabilità risarcitoria dell’amministrazione regionale.
A tale scopo, il TAR non solo ha applicato i criteri indicati dalla giurisprudenza maggioritaria (aderente alla tesi della natura aquiliana della responsabilità), basati sulla “presunzione relativa di colpa” del soggetto pubblico autore del provvedimento illegittimo, ma ha svolto un accurato e puntuale accertamento relativo alla sussistenza della colpa concreta e del dolo dell’amministrazione.
24.4 - Nel caso di specie, infatti, il primo giudice – dopo aver qualificato la responsabilità come “speciale” - si è poi mosso nel solco dei parametri propri della responsabilità extracontrattuale, individuando come elementi costitutivi della responsabilità della P.A., l’elemento oggettivo, l’elemento soggettivo, il nesso di causalità ed il danno ingiusto.
Anche nella valutazione dell’elemento soggettivo e del nesso di causalità (sui quali si appuntano le doglianze della Regione Lombardia), il TAR, in ultima analisi, ha fatto applicazione dei comuni criteri utilizzati nell’ambito della responsabilità extracontrattuale: ciò comporta la sostanziale neutralità – ai fini della decisione – dell’inquadramento dogmatico della fattispecie seguito dal primo giudice.
25. - Prima di procedere alla disamina delle doglianze proposte dalla Regione è opportuno richiamare i principi espressi dal TAR.
In merito all’elemento oggettivo della responsabilità, ossia il fatto lesivo e la sua ingiustizia, il primo giudice ha ritenuto che:
“esso consiste in primo luogo nell’impedimento frapposto all’esecuzione dell’autorizzazione rilasciata dalla Corte di Appello di Milano, con decreto del 9 luglio 2008, emesso nel giudizio di rinvio disposto dalla Corte di Cassazione, sez. I, 16.10.2007, n. 21748, e in sede di reclamo contro provvedimento del giudice tutelare del Tribunale di Lecco e divenuto ormai definitivo.
Anche la sentenza di questo Tribunale n. 214 del 26 gennaio 2009, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza del 2 settembre 2014 n. 4460, che ha annullato il diniego del Direttore Generale della Direzione generale Sanità della Giunta Regionale Lombardia del 3 settembre 2008 di accettare il ricovero della malata, è rimasta inadempiuta prima del decesso dell’interessata”.
Quanto all’elemento soggettivo, ha ritenuto che:
“A fronte di un decreto della Corte d’Appello di Milano – adottato il 9 luglio 2008 – di cui non può contestarsi l’efficacia di cosa giudicata (punto 66.3 sentenza n. 4460 del 2014 del Consiglio di Stato), contenente l’ordine di eseguire la prestazione richiesta (punto 65.4 cit.), la Regione si è rifiutata deliberatamente e scientemente di darvi seguito, ponendo in essere un comportamento di natura certamente dolosa.
Come evidenziato dalla pronuncia del Consiglio di Stato (punto 23.1), la Regione ha inteso negare l’effettuazione della richiesta prestazione sanitaria non con la semplice inerzia o con un mero comportamento materiale, agendo “nel fatto”, o adducendo a motivo di tale mancato adempimento l’impossibilità tecnica della prestazione richiesta o un impedimento di ordine fattuale, bensì con l’emanazione di un espresso provvedimento, a firma del Direttore Generale della Sanità Lombarda”.
Ha poi aggiunto il TAR che:
“Non è possibile che lo Stato ammetta che alcuni suoi organi ed enti, qual è la Regione Lombardia, ignorino le sua leggi e l’autorità dei tribunali, dopo che siano esauriti tutti i rimedi previsti dall’ordinamento, in quanto questo comporta una rottura dell’ordinamento costituzionale non altrimenti sanabile.
Né, a tal fine, si possono invocare motivi di coscienza, in quanto, come evidenziato dalla pronuncia del Consiglio di Stato (punto 55.6), <>”.
Infine, il TAR ha ritenuto sussistente anche il nesso causale, rilevando che:
“l’inottemperanza al giudicato civile prima, ed a quello amministrativo poi, ha determinato la protrazione di uno stato vegetativo permanente in capo al soggetto interessato e contro la sua volontà, con tutte le conseguenza che ne sono derivate”.
26. - Le doglianze dell’appellante principale si rivolgono essenzialmente contro i capi di sentenza che hanno statuito la sussistenza del dolo (negando anche la mera colpevolezza della condotta) e hanno riconosciuto la sussistenza del nesso causale.
In particolare, con riferimento all’elemento psicologico dell’illecito, la Regione ha richiamato il costante orientamento della giurisprudenza, in tema di errore scusabile, idoneo ad escludere il dolo e la colpa dell’amministrazione autrice del provvedimento illegittimo (cfr., tra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 22/11/2016, n. 4896; Consiglio di Stato, sez. V, 2/09/2016, n. 3790) desumibile nel caso di specie dalle seguenti circostanze:
- la notevole complessità della questione;
- l’assenza di una specifica regolamentazione legislativa (sfociata nell’avvio del procedimento penale a carico degli operatori che avevano eseguito il distacco del sondino);
- l’elevata discrezionalità tecnica dell’attività della P.A.;
- l’esistenza di contrasti giudiziari, giuridici e scientifici sulla questione;
- la mancata indicazione nella decisione della Corte di Appello di Milano di oneri o di adempimenti a carico del SSR/SSN derivanti dall’attuazione del decreto.
L’appellante ha quindi rilevato che tali particolari circostanze non avrebbero potuto essere ignorate dal giudice di primo grado come parametri per affermare la sussistenza o meno dell’elemento soggettivo in capo all’Amministrazione.
27. - Con riferimento alla specifica imputazione della condotta come dolosa, l’appellante ha dedotto la mancata allegazione di prove idonee a qualificare il comportamento degli uffici regionali come diretto a nuocere intenzionalmente, precisando che non sarebbe configurabile neppure la colpevolezza della condotta, per le ragioni in precedenza espresse. In tal senso non potrebbero rilevare le esternazioni rese, in merito alla vicenda, dall’allora Presidente della Regione, trattandosi di un soggetto titolare di un ruolo essenzialmente politico, che non si identifica con le distinte funzioni attribuite all’apparato amministrativo che ha emesso l’atto causativo di danno.
28. - La tesi della Regione, benché articolata con approfonditi argomenti, non può essere condivisa.
Innanzitutto, è opportuno richiamare i principi espressi dalla Corte di Cassazione in tema di autodeterminazione terapeutica, già con la sentenza 16 ottobre 2007 n. 21748, in epoca, quindi, precedente l’adozione del provvedimento regionale, e certamente conosciuta dall’amministrazione, considerando la rilevanza, anche mediatica, assunta dalla decisione.
Tale pronuncia ha enunciato con chiarezza le regole che governano il rapporto tra il soggetto assistito e la struttura del servizio sanitario che eroga le cure e il trattamento terapeutico, direttamente applicabili anche alla fattispecie in esame.
Di seguito si riportano i passaggi più significativi della pronuncia, incentrata sul riconoscimento della intangibilità della libertà dell’individuo, secondo principi ripresi e sviluppati con chiarezza anche nella citata decisione di questa Sezione n. 4460 del 2014.
“Occorre premettere che il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l'intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell'interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi.
Il principio del consenso informato - il quale esprime una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente, nel senso che detto rapporto appare fondato prima sui diritti del paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri del medico - ha un sicuro fondamento nelle norme della Costituzione: nell'art. 2, che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità nell'art. 13, che proclama l'inviolabilità della libertà personale, nella quale "è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo" (Corte cost., sentenza n. 471 del 1990); e nell'art. 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo, oltre che come interesse della collettività, e prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta ad una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana e ulteriormente specificata con l'esigenza che si prevedano ad opera del legislatore tutte le cautele preventive possibili, atte ad evitare il rischio di complicanze.
Nella legislazione ordinaria, il principio del consenso informato alla base del rapporto tra medico e paziente è enunciato in numerose leggi speciali, a partire dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (L. 23 dicembre 1978, n. 833), la quale, dopo avere premesso, all'art. 1, che "La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana", sancisce, all'art. 33, il carattere di norma volontario degli accertamenti e dei trattamenti sanitari.
Nel codice di deontologia medica del 2006 si ribadisce (art. 35) che "Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente".
La pronuncia della Cassazione ha chiarito che “Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.
Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l'intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del "rispetto della persona umana" in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.
Ed è altresì coerente con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza.
Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita.
Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l'individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell'individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c'è spazio - nel quadro dell'"alleanza terapeutica" che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una strategia della persuasione, perché il compito dell'ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c'è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico.
Lo si ricava dallo stesso testo dell'art. 32 Cost., per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l'intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto (Corte cost., sentenze n. 258 del 1994 e n. 118 del 1996).
Soltanto in questi limiti è costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo:
il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell'interessato, finanche di lasciarsi morire.
Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. E d'altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l'obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l'obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa - insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure - quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui.
Tale orientamento, prevalente negli indirizzi della dottrina, anche costituzionalistica, è già presente nella giurisprudenza di questa Corte. La sentenza della 1^ Sezione penale 29 maggio 2002 - 11 luglio 2002 afferma che, "in presenza di una determinazione autentica e genuina" dell'interessato nel senso del rifiuto della cura, il medico "non può che fermarsi, ancorché l'omissione dell'intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell'infermo e, persino, la sua morte". Si tratta evidentemente - si precisa nella citata pronuncia - di ipotesi estreme, "che nella pratica raramente è dato di registrare, se non altro perché chi versa in pericolo di vita o di danno grave alla persona, a causa dell'inevitabile turbamento della coscienza generato dalla malattia, difficilmente è in grado di manifestare liberamente il suo intendimento": "ma se così non è, il medico che abbia adempiuto il suo obbligo morale e professionale di mettere in grado il paziente di compiere la sua scelta e abbia verificato la libertà della scelta medesima, non può essere chiamato a rispondere di nulla, giacché di fronte ad un comportamento nel quale si manifesta l'esercizio di un vero e proprio diritto, la sua astensione da qualsiasi iniziativa di segno contrario diviene doverosa, potendo, diversamente, configurarsi a suo carico persino gli estremi di un reato".
“La soluzione, tratta dai principi costituzionali, relativa al rifiuto di cure ed al dovere del medico di astenersi da ogni attività diagnostica o terapeutica se manchi il consenso del paziente, anche se tale astensione possa provocare la morte, trova conferma nelle prescrizioni del codice di deontologia medica: ai sensi del citato art. 35, "in presenza di documentato rifiuto di persona capace", il medico deve "in ogni caso" "desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona".
Ha poi aggiunto la Cassazione, tenendo conto della particolare condizione in cui versava - omissis -, che “chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente.
La tragicità estrema di tale stato patologico - che è parte costitutiva della biografia del malato e che nulla toglie alla sua dignità di essere umano - non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale, che il Servizio sanitario deve continuare ad offrire e che il malato, al pari di ogni altro appartenente al consorzio umano, ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte”.
Aggiunge poi la Corte di Cassazione: “Ma - accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza - c'è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno.
Uno Stato, come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest'ultima scelta”.
Rileva, inoltre, la Cassazione che:
“Non v'è dubbio che l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche”.
A questo pronunciamento della Corte di Cassazione ha fatto seguito il decreto della Corte di Appello di Milano, pronunciato in sede di rinvio, che ha dettato le prescrizioni per l’esecuzione del distacco del sondino naso-gastrico, nel rispetto della dignità della persona disabile, indicando gli obblighi gravanti sul soggetto istituzionalmente competente ad assicurare lo svolgimento del servizio sanitario.
29. - Questo lungo richiamo alle statuizioni contenute nella sentenza della Prima Sezione della Corte di Cassazione del 16 ottobre 2007 n. 21748 è necessario – e determinante - per valutare l’elemento psicologico dell’illecito, alla luce delle doglianze proposte dalla Regione Lombardia, dirette a confutare non soltanto il dolo, ma anche la colpa, in considerazione dell’asserita scusabilità dell’errore.
La tesi dell’appellante principale non può essere condivisa.
Dopo questo chiarissimo pronunciamento da parte della Corte di Cassazione, e dopo l’adozione del provvedimento emesso dalla Corte di Appello in sede di rinvio, ritiene il Collegio che non potessero sussistere seri dubbi circa la portata dell’obbligo della Regione di provvedere a fornire la necessaria prestazione sanitaria, nel rispetto dell’accertato diritto della persona assistita all’autodeterminazione terapeutica, presso una delle strutture sanitarie regionali.
30. - Questa Sezione ha rilevato che il diritto di rifiutare le cure, riconosciuto ad - omissis - dalla Corte di Cassazione, e, in sede di rinvio, dalla Corte di Appello di Milano, è un diritto di libertà assoluto, efficace erga omnes. Pertanto, si tratta di una posizione giuridica che può essere fatta valere nei confronti di chiunque intrattenga il rapporto di cura con la persona, sia nell’ambito di strutture sanitarie pubbliche che di soggetti privati.
Secondo la citata pronuncia della Sezione, la sospensione del trattamento di sostegno vitale costituisce “la scelta insindacabile del malato di assecondare il decorso naturale della malattia fino alla morte” e “l’accettazione presso la struttura sanitaria pubblica non può (…) essere condizionata alla rinuncia del malato ad esercitare un suo diritto fondamentale”.
Non può condividersi, allora, la tesi della Regione, diretta a sostenere che, all’epoca del provvedimento di rifiuto, potessero ancora sussistere incolpevoli dubbi circa il proprio obbligo di eseguire il trattamento sanitario richiesto dalla stessa persona assistita, nell’esercizio della sua libertà di cura: tale obbligo, definito analiticamente dalle pronunce del giudice civile intervenute sulla vicenda, discende direttamente dalla natura e dall’oggetto del diritto riconosciuto alla persona assistita, alla luce dei principi costituzionali direttamente applicabili.
Deve aggiungersi, inoltre, che la Cassazione aveva chiaramente ed espressamente qualificato l’attività diretta alla sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiale dell’assistito come trattamento sanitario, affrontando e risolvendo puntualmente proprio uno dei profili più discussi e delicati della questione.
Sicché, all’epoca del provvedimento di rifiuto, secondo parametri di ordinaria diligenza non poteva ragionevolmente porsi in dubbio l’obbligo della Regione – che aveva già in cura la persona assistita da ben 17 anni – di adottare, tramite le proprie strutture, le misure corrispondenti al consenso informato espresso dalla persona, come definite dalle pronunce del giudice civile, che aveva accertato – con decisione passata in giudicato - l’esistenza di una idonea e valida manifestazione di volontà in tal senso.
La Regione, pertanto, era tenuta a continuare a fornirle la propria prestazione sanitaria, anche se in modo diverso rispetto al passato, dando doverosa attuazione alla volontà espressa dalla stessa persona assistita, nell’esercizio del proprio diritto fondamentale all’autodeterminazione terapeutica.
Questi profili, riferiti all’obbligatorietà dell’intervento della Regione, del resto, sono accuratamente svolti nei paragrafi 46.1 e seguenti della sentenza di questa Sezione n. 4660 del 2014), ai quali si rinvia integralmente.
Non coglie nel segno nemmeno l’affermazione dell’appellante secondo cui l’attuazione dell’obbligo imposto dal giudice civile avrebbe comportato il rischio di responsabilità penali del personale sanitario, con particolare riguardo alla fattispecie di cui all’art. 579 c.p.
Anche questo aspetto della questione ha formato oggetto di approfondita analisi nella giurisprudenza del giudice ordinario, che è da tempo attestato su esiti interpretativi univoci, certamente conoscibili dall’amministrazione regionale mediante lo sforzo di ordinaria diligenza esigibile da parte del soggetto responsabile istituzionalmente dell’attività sanitaria.
In particolare, la stessa Corte di Cassazione, nella sentenza n. 21748 del 2007 aveva richiamato la precedente decisione della Prima Sezione Penale del 29 maggio – 11 luglio 2002, che si era pronunciata in merito alla non responsabilità del sanitario in caso di rifiuto di cure da parte della persona assistita (cfr. § 6.1).
Questo orientamento, del resto, risulta confermato anche da pronunce successive del giudice penale, intervenute su vicende analoghe a quella del presente giudizio, tutte basate sulla riconosciuta prevalenza del diritto fondamentale alla autodeterminazione della persona.
In ogni caso, il Collegio deve ribadire che, al momento dell’adozione del provvedimento di rifiuto adottato dalla Regione, l’esistenza di precise decisioni del giudice civile passate in giudicato, non poteva lasciare margini di dubbio in ordine alla sussistenza dell’obbligo di pronunciarsi nel senso della richiesta formulata dal titolare del diritto.
Le ragioni che la difesa della Regione adduce per invocare l’errore scusabile (e cioè l’assenza di una disciplina legislativa, il contrasto tra gli studiosi del settore, i possibili problemi di ordine penale per il proprio personale che si fosse prestato a dare esecuzione alle pronunce giurisdizionali), potevano presentare rilevanza, molto probabilmente, al momento in cui, per la prima volta, l’assistita aveva richiesto di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione terapeutica.
Ma tali motivi non potevano più influire sull’asserito errore scusabile, in presenza di un giudicato che aveva accertato il diritto al distacco del sondino naso-gastrico nel rispetto del principio dell’autodeterminazione terapeutica della persona assistita (cfr. sul punto anche la sentenza di questa Sezione n. 4460 del 2014 § 45.4 e seguenti), esaminando e risolvendo accuratamente tutti gli aspetti controversi della vicenda.
Sotto altro profilo, la Regione riprende un argomento già esposto nel giudizio riguardante l’impugnazione del provvedimento di rigetto, asserendo che il decreto della Corte di Appello non avesse indicato con chiarezza il destinatario dell’obbligo di assicurare l’esercizio del diritto alla autodeterminazione terapeutica.
Il punto è stato esaminato nei paragrafi n. 65.1 e seguenti della citata sentenza n. 4460 del 2014, la quale ha indicato la doverosità dell’attuazione della pronuncia della Corte di Appello di Milano da parte della Regione.
Non sembra discutibile, infatti, che il diritto alla libertà di cure dell’assistito si manifesti con pienezza nei confronti dell’apparato istituzionalmente deputato allo svolgimento del servizio sanitario.
Nel caso in esame, la Regione aveva espresso un rifiuto assoluto (riguardante tutte le strutture facente parti del servizio regionale), che non potrebbe essere in alcun modo giustificato dal dubbio circa la titolarità dell’obbligo di svolgere prestazioni, già qualificate dal giudice civile come sanitarie e quindi certamente rientranti nella sfera dei compiti cui la Regione è obbligata.
In presenza di una pronuncia passata in giudicato che riconosceva il diritto alla sospensione del trattamento di alimentazione e idratazione, il potere discrezionale della Regione era riconducibile alla sola scelta organizzativa della struttura più idonea ove eseguire la prestazione sanitaria.
Il rifiuto della Regione, invece, è stato illegittimamente basato sulla affermata insussistenza del dovere di svolgere la prestazione indicata dal giudice civile.
Del resto, se davvero vi fossero stati effettivi e incolpevoli dubbi sulla portata degli obblighi nascenti a proprio carico dal provvedimento della Corte di Appello, la Regione, prima di adottare un così perentorio rifiuto in merito alla diffida presentata dal ricorrente in primo grado, avrebbe dovuto svolgere ulteriori approfondimenti critici, svolgere un’istruttoria seria e puntuale, acquisire adeguati pareri legali, mirati a verificare gli eventuali margini di possibile, legittimo, dissenso dalle pronunce dei giudici.
Dagli atti di causa non emerge, invece, alcuna pregressa incertezza in capo alla Regione, che nel provvedimento impugnato ha chiaramente espresso il proprio netto rifiuto alla richiesta di adottare le necessarie misure per dare esecuzione alla pronuncia giurisdizionale, senza compiere alcun diligente sforzo diretto a comprovare la fondatezza dei prospettati dubbi applicativi.
Neanche dopo le successive pronunce giurisdizionali tutte contrarie alla propria tesi (Cass. SSUU 13 novembre 2008 n. 27145; Corte Costituzionale 8 ottobre 2008 n. 334, Corte EDU, Sezione Seconda, 16 dicembre 2008) e neppure dopo la sentenza del TAR che aveva annullato l’atto, la Regione ha inteso rivedere la propria posizione.
Se davvero la Regione avesse male interpretato la decisione giurisdizionale per le ragioni addette oggi dalla difesa dell’ente, o se avesse colpevolmente violato l’obbligo di diligenza e di prudenza di cui all’art. 1176, comma, 2 c.c., omettendo di approfondire una problematica ritenuta particolarmente complessa, acquisendo i necessari chiarimenti tecnici, dopo le pronunce giurisdizionali sopra citate, ed ancor più dopo la sentenza del TAR, avrebbe dovuto rivedere la propria decisione, alla luce delle successive decisioni: nulla di ciò è però accaduto in quanto la Regione ha poi continuato a tenere fermo il proprio orientamento.
Ritiene tuttavia il Collegio che debba essere parzialmente rettificata la conclusione cui è pervenuta l’appellata sentenza del TAR, la quale ha ritenuto senz’altro “dolosa” la condotta dell’amministrazione regionale, anziché colposa. In sintesi, a parere del giudice di primo grado, l’evidenza della violazione del giudicato civile potrebbe indurre a ritenere che il provvedimento di rifiuto illegittimo si sostanzi nel consapevole e volontario inadempimento di un preciso dovere giuridico.
Questo esito, per quanto ragionevolmente motivato dal TAR, non risulta pienamente persuasivo.
In linea generale, infatti, il dolo non presuppone necessariamente e soltanto – come asserito, invece, dalla difesa della Regione – la volontarietà di nuocere, di arrecare pregiudizio. Tale impostazione rimanda ad una connotazione di tipo “etico”, più propria del diritto penale (e di quello punitivo in genere) piuttosto che di quello civile e amministrativo.
La configurazione del dolo ricorre, invece, anche quando il soggetto agente – pur non finalizzando il proprio comportamento alla realizzazione di un pregiudizio, decida volontariamente di non adempiere, assumendo un atteggiamento ostruzionistico, renitente, oppositivo, pur avendo la certezza – soggettiva – della sussistenza dell’obbligo.
Ora, nel caso di specie, è fuori discussione che, in capo all’amministrazione regionale fosse assente qualsiasi intento di nuocere deliberatamente agli interessi della persona assistita. È vero semmai il contrario e cioè che, dal suo unilaterale punto di vista soggettivo, la Regione avesse ritenuto di adottare le condotte più opportune per tutelare il “bene” della vita della persona, ritenuto intangibile e recessivo anche a fronte del diritto all’autodeterminazione della persona.
Pertanto, si può senz’altro escludere che sussista, nella presente vicenda, il dolo della Regione, nella sua accezione più estrema, quale consapevolezza e volontarietà di arrecare un danno ingiusto, in violazione dei doveri gravanti sul soggetto.
Resta però da verificare se, proprio alla luce dello svolgimento delle ultime fasi della vicenda, sia configurabile il dolo della Regione nella sua dimensione più lata, intesa come piena consapevolezza della esistenza del dovere e della deliberata volontà di non adempierlo.
A questo riguardo, occorre valutare esclusivamente i contenuti del provvedimento di rifiuto e le condotte dell’amministrazione ad esso direttamente collegate, senza attribuire significativo risalto – nel contesto del presente giudizio – alle manifestazioni di critica e di dissenso espresse, anche con forti accenti, amplificati dai media, dagli organi di vertice della Regione.
Il provvedimento di diniego, nel suo oggettivo significato, non sembra potersi ridurre ad una mera acritica “ribellione” alle decisioni del giudice civile, incentrata sulla pura e semplice volontà di non dare seguito ad una pronuncia non condivisa nei suoi contenuti prescrittivi.
L’atto, invece, manifesta lo scopo di individuare alcune possibili ragioni di carattere giuridico e fattuale, ritenute idonee, nella prospettiva della Regione, a sorreggere il rifiuto di eseguire le prestazioni richieste dall’avente diritto.
Nel presente giudizio amministrativo non è possibile, né necessario, indagare sull’intimo percorso “psicologico” che potrebbe avere condotto i dirigenti e i funzionari della Regione Lombardia alla formazione del provvedimento e alla sua motivazione.
È sufficiente rilevare che le ragioni indicate nell’atto non si riducono ad una frontale e apodittica volontà di non adempiere, ma esprimono, comunque, l’asserita – per quanto infondata - convinzione dell’assenza di un puntuale obbligo di esecuzione.
Tali considerazioni, pertanto, inducono la Sezione a ritenere che, allo stato degli elementi istruttori emersi in corso di causa, e in relazione alle finalità proprie del presente processo risarcitorio, non sia adeguatamente dimostrato l’atteggiamento doloso della Regione, riguardata nel complesso del suo apparato.
Tuttavia, alla riconosciuta mancanza di prova del dolo si deve contrapporre l’accertamento della sicura ricorrenza della colpa dell’amministrazione.
Al riguardo, occorre richiamare tutte le considerazioni ampiamente sviluppate nella precedente decisione della Sezione e nella presente sentenza.
Tutti gli argomenti prospettati dalla Regione per ridimensionare o escludere il proprio dovere di prestazione sono in evidente contraddizione con gli accertamenti espressi dalle pronunce del giudice che si sono succedute sulla questione e manifestano, come si è già sottolineato, la sicura colpa dell’amministrazione regionale.
La determinazione adottata dalla Regione, come già rilevato, denota una palese carenza di diligenza e non sono emersi indizi adeguati di un possibile “errore scusabile”, tale da escludere l’elemento soggettivo della responsabilità.
Nel caso di specie, l’Amministrazione ha colposamente rifiutato di prestare la propria collaborazione all’esecuzione del provvedimento della Corte di Appello, manifestando un ingiustificato atteggiamento oppositivo, idoneo ad ostacolare l’attuazione della statuizione coperta da giudicato, in quanto non solo e non tanto perché “eticamente” non condivisa, ma anche, e soprattutto trincerandosi dietro l’asserita mancata individuazione da parte della Corte di Appello della specifica struttura deputata all’esecuzione del proprio provvedimento, non tenendo conto che, trattandosi di trattamento sanitario (così qualificato dal